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Sono una biologa ricercatrice che lavora all’Università degli Studi di Perugia presso la sezione di Ginecologia e Ostetricia del Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Biomediche. Mi dedico da molti anni alla ricerca nell’ambito della biologia molecolare applicata alla medicina prenatale e questo ha permesso sia l’individuazione di marcatori utili nella prevenzione di complicanze gravidiche (quali il parto pretermine e il diabete gestazionale) sia lo sviluppo e l’introduzione a livello clinico di test prenatali non invasivi (basati sull’analisi del DNA fetale circolante nel sangue periferico materno durante la gravidanza) volti alla determinazione del sesso fetale, nel caso di donne a rischio di malattie genetiche legate al cromosoma X, e test volti alla determinazione del genotipo RHD fetale, nel caso di donne RhD negative a rischio di eritroblastosi fetale. Recentemente ho avuto la possibilità di trasferire le mie competenze di biologa molecolare nel settore dell’infertilità, tema di grande interesse scientifico, visto che è un problema che riguarda circa il 10-15% delle coppie. Nella maggior parte dei casi si può intervenire con diagnosi tempestive, cure farmacologiche e terapie adeguate, ma anche con la prevenzione e l’informazione; per altre circostanze è necessario ricorrere alla procreazione medicalmente assistita (Gnoth et al., 2005). La fecondazione in vitro (IVF) è un processo complesso che prevede la raccolta di ovociti dopo iperstimolazione ovarica controllata (COH), la fecondazione dell’ovocita, lo sviluppo embrionale ed il trasferimento degli embrioni in utero. Tutti questi passaggi sono fondamentali per il successo della IVF. Tuttavia, la fase critica iniziale di questa complessa procedura è la COH, il cui obiettivo è quello di ottenere, senza rischi, un elevato numero di ovociti maturi e di consentire la selezione degli embrioni più vitali per il trasferimento (Boudjenah et al., 2012). Nella risposta alla COH è stata osservata una elevata variabilità interindividuale, presentando in alcuni casi una risposta ovarica soddisfacente, in altri una insufficiente con conseguente cancellazione del ciclo, in altri ancora una eccessiva risposta con rischio di sindrome da iperstimolazione ovarica (OHSS) (Sheikhha et al., 2011;Huang et al., 2014). Per questo motivo, la ricerca sta rivolgendo un crescente interesse all’individuazione di nuovi metodi per la valutazione dello stato della riserva ovarica della donna prima dell’inizio della stimolazione, oltre che per individuare la terapia farmacologica che possa garantire il miglior outcome del trattamento. Diversi marcatori sierici ed ecografici sono stati postulati come predittori di risposta ovarica. Tuttavia, questi marcatori sembrano utili per individuare la dose appropriata di ormone follicolo-stimolante (FSH) da somministrare, ma non riescono a prevedere in maniera precisa la tipologia di risposta alla COH, le percentuali di gravidanza o l’outcome della riproduzione assistita (Broekmans et al., 2006). Attualmente, il livello di ormone anti-Mülleriano (AMH) rappresenta il marker più utilizzato, anche se è stato ampiamente dimostrato che il background genetico individuale influenza notevolmente la diversa risposta delle donne alla COH (Broekmans et al., 2006). Infatti, è stato recentemente osservato che alcune varianti genetiche come i polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) presenti in geni codificanti per l’LH (ormone luteinizzante) (Alviggi et al., 2009), per i recettori degli estrogeni (Altmae et al., 2007), per l’FSH ed il relativo recettore (FSHR) (Perez Mayorga et al., 2000) possono influenzare sia la riserva ovarica che la risposta alla COH e, di conseguenza, l’outcome dell’IVF. Quindi, è stato ipotizzato che uno screening genetico potrebbe in futuro migliorare il management delle donne infertili ottimizzando la strategia di trattamento farmacologico, aumentando la capacità predittiva della risposta ovarica alla COH e l’outcome dell’IVF (Alviggi et al., 2012). Per tale motivo lo scopo di questo studio è quello di analizzare, mediante la tecnica della real time PCR, nuovi SNPs presenti nei geni che codificano gli ormoni e i relativi recettori coinvolti nella risposta ovarica, al fine di individuare quali possano essere i potenziali marker della diversa suscettibilità individuale nei confronti della funzionalità ovarica, della risposta alla COH e all’IVF.